All’inconsapevolezza si unisce la passione per il soft power a stelle e strisce, percepito come benigno simbolo del progresso, che impedisce al Belpaese di guardare con razionalità agli Stati Uniti e lo espone alla profilatura di massa realizzata dalla National Security Agency. Come svelato nel giugno del 2013 dal fuggitivo Edward Snowden, l’agenzia di intelligence statunitense, attraverso l’accesso ai server di almeno nove tra social network e servizi di posta elettronica (Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, Youtube, Skype, Aol, Apple), studia le comunicazioni private di centinaia di milioni di utenti che affidano i loro pensieri alla Rete. Si tratta di un’arma non convenzionale che consente a Washington di conoscere i cittadini stranieri meglio dei loro governanti e, se utilizzata con raziocinio, di prevedere i fenomeni sociali che interesseranno il globo. Per questa ragione le rivelazioni di Snowden hanno scatenato le veementi reazioni dei governi stranieri, dalla Germania alla Francia, dalla Russia al Brasile, dalla Cina all’India. In Italia, invece, Paese che vanta quasi 20 milioni di utenti Facebook, lo scandalo si è ingenuamente tradotto in un (breve) dibattito incentrato sulla privacy degli internauti, che ha tralasciato del tutto le ramificazioni strategiche del fenomeno. Per Palazzo Chigi il settore hi-tech degli Stati Uniti resta un filantropico strumento d’avanzamento culturale e l’inglese, lungi dall’essere un mezzo neutro con cui far valere le proprie ragioni, rimane un idioma misterioso da cui pescare magici slogan. Così il 23 settembre il Premier Renzi ha visitato la sede di Yahoo, in California, senza suscitare alcuna rimostranza nell’opinione pubblica, malgrado il gigante di Sunnyvale sia tra le società che hanno ripetutamente violato le comunicazioni dei cittadini italiani. Mentre in patria la legge sul lavoro si trasformava in jobs act, gli attivisti politici in followers e le coppie di fatto in civil partnerships. Tanto è bastato per scatenare il sarcasmo dei media d’oltreoceano e inficiare ulteriormente il potere negoziale del governo. A marzo, in occasione della visita di Obama a Roma, il celebre sito Politico ha descritto il primo ministro italiano come «un festoso cagnolino (…) che ha ribattezzato jobs act una sua proposta di legge». E a settembre l’impegnato New Yorker ha rincarato la dose paragonando senza mezzi termini l’inglese di Renzi a quello di Roberto Benigni.
Dario Fabbri, “Amiamo tanto l’America”, in Limes n. 11/2014